Credo nel lavoro, perché credo, innanzitutto, nella fame e nelle notti troppo calde o troppo fredde senza niente e nessuno. Credo nel lavoro, perché nessun uomo é un'isola.
Non é, quindi, solo una questione di soldi. Perché per molto tempo io i soldi li ho usati per farmi del male e per fare male. Invece il lavoro mi ha salvato da un me stesso troppo inconsapevole e senza misura. Certo, la giovinezza e l'inesperienza non aiutano, come, del resto, non aiutano nemmeno i presunti amici o i complici.
Complicità é una parola dai mille significati. E io li ho sperimentati tutti. Forse é per questo motivo (se, pure, sia lecito definirlo "motivo") che quel giorno ho sparato a un uomo, ferendolo solo, per fortuna. Un rimbalzo accidentale del proiettile partito dall'arma che impugnavo e che ha spalancato le porte del mio Inferno personale. Lui, la vittima, era un inconsapevole ostacolo tra me e i soldi di cui avevo bisogno per sostenere la mia dipendenza. Del resto avevo agito senza alcuna lucidità .
Ma questo é stato solo l'inizio.
Ho picchiato e sono stato picchiato. Le botte fanno male, ma non quanto la burocrazia punitiva dei giorni scanditi da ore sempre uguali e dal rumore troppo vicino dello sciacquone che, come una litania infetta, ti ricorda la vita che scivola via senza sermoni e note a margine. Non c'é poesia o musica che possano accompagnare il mio romanzo reale dentro la carcerazione o su marciapiedi senza meta e direzione. Non ci sono parole adatte a commentare il mio "luna park" di salite e di discese vertiginose dove il divertimento é assuefazione e la nausea diventa un lavoro. Perché nell'ottica della mia super filosofia di notte vivevo, mentre di giorno facevo danni.
Chi é nel disagio può anche averne consapevolezza, ma te la fai andare bene e ti adatti, perché l'unica cosa che conta é la tua vita sbilenca. Di notte vivi. Di giorno ti prepari. Ma negli intervalli - anche lunghi - di vita "regolare" ho sempre ricevuto non poche gratificazioni per il mio modo di lavorare: preciso, efficiente, puntuale. Quindi é sempre stata lì, la vita vera, quella che ora ho il coraggio di affermare, ogni mattina, che é l'unica vita che voglio vivere veramente. Ho una moglie e una figlia. Ho nuovi amici, un nuovo lavoro e delle responsabilità .
Quindi posso affermare di credere anche negli uomini di buona volontà . Uomini veri, reali, intendo, non concetti! Uomini che hanno un nome e un cognome. Uomini che mi hanno restituito a me stesso. Il lavoro per me é un'autodisciplina che ha un valore civile, sociale e personale. Il lavoro mi ripara il cuore, oggi troppo ingrossato per la mia antica illusione di sballo eterno. É strano come le cose materiali, gli oggetti oppure un corpo possano mutare a causa di un sentimento astratto o di un pensiero impalpabile.
Ma così é: il mio cuore é malato non tanto e non solo per quello che ho assunto, ma anche e soprattutto perché ho dormito lunghi sonni disperati senza coperte su un cartone da imballaggio per televisori o per mobili da giardino. Oppure perché mio padre moriva mentre io ne ero all'oscuro e quando l'ho saputo ho percorso i pochi metri della mia cella indietro e avanti augurandomi di stare dentro alla mia rapida sepoltura. Com'é alto l'abisso quando lo guardi dal fondo...
Io credo nel lavoro. Credo ancora negli uomini, in alcuni, perlomeno: hanno nomi e cognomi, hanno una casa, degli amici. Come me.
Provate a dirvi “mi serve un pranzo, mi serve una cena, un nuovo paio di pantaloni” oppure “mi serve riparare l’auto”. La questione è già grave, poiché per un operaio con familiari a carico la coperta spesso è corta e le questioni sono sempre troppe. Provate, tuttavia, a dirvi “mi serve la salute, perché sto male e non respiro per via di un avvelenamento da piombo”.
Ecco, in questo caso le cose si complicano, perché non puoi risolvere la faccenda con un paio di telefonate. Ora, io ho sempre lavorato, malgrado le mie numerose traversie. Continuo a lavorare anche a fronte della mia invalidità parziale (ma insufficiente per un assegno di dignità personale). Continuo a lavorare, perché, malgrado gli anni biologici e da calendario, sono stato costretto a un part time oltremodo penalizzante per una sostenibile maturità contributiva. Ma questo è un problema che non c’entra con chi mi ha garantito un lavoro.
Qualcuno ha capito la mia difficoltà e la mia fatica: innanzitutto è il medico del lavoro, che ha perfettamente intuito il mio iniziale problema di salute e mi ha “costretto” a un cambio totale di vita professionale. Ben venga, quindi, la sensibilità cooperativa anche se, credo sia giusto sottolinearlo, sono sempre le persone a fare la differenza.
Qualcuno, dunque, ha capito la mia situazione. Qualcun altro ha, invece, capito ben poco, complicandomi oltremodo la vita. Chi riveste ruoli di responsabilità istituzionale dovrebbe possedere, innanzitutto, una dose di normale umanità o di media tignosità.
Ma non è sempre così. Dopo sette lutti familiari in due anni, dopo diverse operazioni chirurgiche (di cui una al cuore) e dopo un ricominciamento professionale non sempre facile, posso dire di essere tornato a una fase, se non discreta, almeno sufficiente della mia vita (ma sempre con le orecchie ben dritte).
A uno come me non serve frequentare le anticamere del potere, come non serve accendere ceri di devozione: la differenza la fa sempre il singolo con la propria determinazione e le specifiche relazioni professionali.
Ora, io capisco e comprendo questa assenza lirica nella mia narrazione. Ma il fatto è che non ho avuto molto tempo per la riflessione e la commozione per la morte, in particolare, dei miei genitori e della mia compagna. Ho fratelli e amici e un lavoro.
Sto diritto come il campanile della chiesa alla cui ombra sono cresciuto.
Mi hanno sparato senza colpirmi. Non sono stato colpito né per mancanza di mira né per pietà verso la mia persona. Non mi hanno ammazzato semplicemente perché forse io rappresentavo una forza lavoro di prim'ordine, perché costituivo un interesse.
Io lavoro forte, non mi manca né la voglia né la qualità fisica. Nel 2016 ero operaio generico per una grande impresa cinese di costruzioni insieme a un mio parente, che avevo raggiunto in Algeria dall'Africa centro occidentale.Viaggio lungo e tortuoso, dettato dalla guerra civile che imperversava dopo le elezioni, contestate da una parte politica del mio Paese. Conflitto fratricida. Il lavoro mi aveva, quindi, portato in Algeria, in Marocco, in Tunisia e, da ultimo, in Libia.
Nel 2017 la mia squadra (40 persona all'incirca) é stata interamente sequestrata da uno dei tanti gruppi di cani sciolti che ancora oggi controllano la Libia. Io non credo che il fanatismo religioso c'entri molto con queste situazioni.
Dunque, siamo stati condotti in una sorta di carcere dal quale ogni mattina venivamo prelevati per lavori esterni di vario genere (costruzioni, agricoltura, ecc.). Nessuna distrazione, nessuna possibilità di fuga, poiché eravamo controllati a vista sotto la minaccia delle armi. Schiavitù allo stato puro. Per poter essere liberati le nostre famiglie avrebbero dovuto pagare un riscatto. Non era, tuttavia, questo, né il mio caso né la mia sorte.
La sveglia della mattina erano le bastonate, le urla e le grida. Le loro e le nostre. Un giorno hanno fatto fuoco verso di me, perché avevo alzato la voce per via dell'acqua imbevibile, una sorta di fogna chimica disgustosa e credo non potabile. Per cui mi hanno azzittito con un atto forte di intimidazione. A un mio compagno é andata peggio: gli hanno aperto la testa con delle bastonate violentissime, finché un giorno, spazientiti per la sua condizione fisica senza riposta, lo hanno portato via. Io non so più nulla di lui. In quell'inferno ho vissuto diversi mesi senza, tuttavia, ricordare esattamente per quanto. Poi la svolta. Uno dei capi - forse quello più ragionevole e umano - ha proposto (a me e ad alcuni miei compagni) di lavorare unicamente per lui per un periodo di circa due mesi, al termine dei quali ci avrebbe fatto fuggire senza, tuttavia, indicare né il come né il dove (e quale altra scelta avrei avuto?). Una sera del 2017 (era giugno) siamo stati trasferiti con un camion in una località di cui non so nulla.
Ci siamo ritrovati su una spiaggia. Ci hanno costretti su un gommone in 147: uomini, donne e bambini e siamo partiti per chissà dove, scortati dalle armi e dai gommoni di altri aguzzini. Niente cibo né acqua. Niente vestiti. Ci hanno lasciato solo con le mutande. A un certo punto della notte hanno fermato la nostra imbarcazione, hanno rimosso il motore del nostro gommone e ci hanno abbandonati alla deriva. Era l'alba quando siamo stati avvistati da un peschereccio che ci ha prestato soccorso intercettando, quindi, via radio, una nave di Medici Senza Frontiere che nel pomeriggio ci trasferiva a bordo portandoci, quindi, al sicuro, in Sicilia. Dalla Sicilia sono, quindi, giunto a Milano (sotto la tutela della Croce Rossa) e da lì in terra bergamasca.
Qui, col tempo, ho iniziato il mio cammino di integrazione (e di liberazione, oserei dire!). Ho conseguito la licenza media, la patente dell'auto e ho iniziato le prime esperienze di lavoro che sono diventate sempre più professionalizzanti. Spesso si stupiscono per la mia giovane età e per il mio senso di responsabilità.
Sì, sul lavoro io sono molto rigido e non concedo nulla ai furbastri che cercano di scendere a patti o vorrebbero darmi la mancia perché io chiuda un occhio. Io non so nulla del domani, ma so quello che é oggi: ho una casa e una compagna, un lavoro e un ambiente che inizia a conoscermi.
Una società giusta si fonda sulla conoscenza e sul rispetto delle persone e delle regole. Gli uomini devono imparare a darsi la mano.
A me piace il poeta Leopardi.
Ho lasciato una città situata tra il deserto e l'oceano, una città meravigliosa, ingoiata dal sole, di cui mi porto dentro la poesia.
Del resto io sono laureato in lingua e letteratura araba antica e, prima di ogni altra cosa, ho fondato la mia vita scavando dentro la storia della mia gente e dei miei luoghi d'origine. Ma per me, cresciuto nella convinzione che sia la vita a dirigere i nostri passi, a guidare le nostre scelte, giungeva il tempo (intorno ai 25 anni) di lasciare il mio Paese alla ricerca di nuove opportunità , malgrado avessi avuto anche l'occasione di un impiego stabile e sicuro.
Determinato nel volermi specializzare nel turismo internazionale presso una nota Facoltà italiana, mi sono scontrato con il problema della sopravvivenza e con il desiderio di aiutare mia madre, rimasta nella mia terra di origine.
Da lì il ripiego nel settore dell'edilizia come semplice muratore e, variabilmente, come posatore di pavimentazioni urbane e industriali.
Giungeva, quindi, l'amore o, almeno, quello che credevo essere tale, poiché l'amarezza di un triste e repentino naufragio dei sentimenti mi portava alla cocente delusione per un rapporto di cui ancora percepisco il dramma del tradimento della parola data. Sono anni oscuri, di perdita del centro, anni furiosi, di maturazione violenta.
Una volta fuoriuscito da questa spirale senza senso, il mio corpo reclamava il prezzo della sofferenza: mi sono ammalato di cancro al polmone. Quindi la chemioterapia con lo spauracchio di un'operazione dall'esito incerto.
Il mio non é un carattere debole o remissivo, ma sono un fatalista sorretto da una fede incrollabile, anche se l'espressione può apparire contraddittoria. Fortunatamente le cure hanno dato risultati insperati. Mi dicono che appartengo al quel risicato 5% mondiale di guariti da questo tipo di patologia.
In ospedale conosco la mia attuale moglie. Ci frequentiamo e, quindi, ci sposiamo. La mia residenza in questo nuovo contesto territoriale é dettato, in primis, dal lavoro di mia moglie. Con un po' di fortuna riesco a superare un importante colloquio di lavoro che mi permette di intraprendere un percorso di formazione che mi garantisce stabilità , serenità e stima da parte di colleghi e responsabili.
Sul lavoro sono intransigente. Rimango, tuttavia, convinto che le regole professionali vadano integrate con un codice morale più alto, perché dietro a ogni banale intervento materiale vi sono molte persone con le loro vite differenti a noi pressoché sconosciute.
Oggi insegno anche la lingua ufficiale del mio Paese ai miei concittadini immigrati e ai loro figli.
La vita é un mare senza spiaggia, ho scritto. Sì, perché da giovane ho vinto anche un importante concorso di poesia.